IL RIPOSO

 

Corse al foro e il respiro divenne mille sospiri senza fine. La zoppa sgranò gli occhi bagnati ma continuò a vedere luci e macchie, sagome sfuocate che dalla via delle botteghe avanzavano verso la piazza. Laggiù le lampade al braccio di quelle figure erano stelle convulse in un cielo sempre più scuro. Le lacrime della zoppa le allargavano e le restringevano, le facevano grosse e piccolissime, corte e lunghe.

   « Arrivano » disse il matto.

   Poline premette il viso alla manica della camicetta e con lo sguardo asciutto tornò a vedere. I rossi accompagnavano gli ufficiali della grande città, li precedevano il capo dei gendarmi e altri sei blu. Li raggiunsero subito il sindaco e l'ometto. Si riunirono davanti alla casa rossa e ora anche le luci degli abitanti si affacciarono dalle porte. Un rosso andò a parlare con il sindaco, poi ci fu uno scambio di fogli.

   « Bisogna andare a salutare il pirata » disse il matto e la strattonò. « All'ora del riposo va via e non torna più. »

   « All'ora del riposo. » Poline si voltò verso di lui e i suoi occhi erano più neri di quel buio che l'aveva sempre nascosta. Quel buio addosso, che dal primo sguardo di R. non l'aveva mai abbandonata. I capelli le coprivano il naso, se li gettò dietro le spalle. All'improvviso accarezzò Nunù sulla guancia e lui si ritrasse. Gli andò all'orecchio e sussurrò poche parole.

   « No! » gridò il matto. « La zoppa non fa il trucco, la zoppa non fa il trucco... » Scuoteva la testa e la supplicava con le mani giunte.

   Poline tornò al foro e vide la donna bionda parlare e annuire a un ufficiale. Alcuni degli abitanti si erano fatti avanti, erano uno accanto all'altro attorno alla piazza.

   Lei tirò fuori l'orologio, l'aprì: l'ora del riposo era ancora lontana.

  « No, si arrabbiano se la zoppa fa il trucco! La polvere dolce, la polvere dolce! »   Nunù scosse la testa, si agitava, le si aggrappò alla vita.

   Poline lo accarezzò ancora.

   « No! » disse il matto di nuovo.

   Ma lei lo lasciò, andò al centro della stanza.

   « Nooo! » strillò lui quando la vide andar via.

  La zoppa corse, si soffermò solo un attimo su quegli occhi dipinti, appesi alla parete senza pietre.

   « Papà. »

  Restarono a guardarla e non erano più velati di paura. Le dissero di andare, la guidarono laggiù. L'accompagnarono fino in fondo alle scale, senza staccarsi mai.

E quando lei arrivò, si chiusero.

 

Poline si avvicinò alla camera. Sentì la musica suonare leggera e Colette che canticchiava con la voce bassa e roca. Là fuori lo strepito, i mormorii, il verso degli uccelli neri che gracchiavano dai tetti.

   Si voltò, avanzò piano verso la stanza delle funi. E quando fu di fronte alle tre corde, aprì l'orologio d'argento: al riposo mancavano due ore e anche di più. Lo mise in tasca, poi fece un respiro che le riempì il petto e subito dopo tossì, l'acido dello stomaco salì in gola e le bloccò l'aria. Sputò mentre un gemito strozzato le attraversava il collo.

   « Che li acciuffi e li conduca. » Fu un soffio che sibilò nella torre. Poi la gamba forte spinse con tutta la forza. E lei saltò e le sue mani afferrarono le corde, le unghie si conficcarono dentro la canapa. I piedi cercarono i grandi nodi, li trovarono e già la schiena era corta e lunga, le braccia tese. Cominciò a salire e scendere ma la campana rimaneva ferma. L'aria le raschiava le narici e il viso sudato si contorceva di fatica. Gridò tra i denti mentre il suo corpo oscillava su e giù. « Che li acciuffi... e li conduca. » Spalancò gli occhi per vedere lassù dove la fune saliva. Curvò la schiena e intanto chiamò la campana. Tirò più che poté. La chiamò di nuovo. Di nuovo.

  Din. Ma quella risposta quasi non si sentì. Le sue mani bruciavano e non smettevano di agitarsi. Tiravano, tiravano, e le corde le mangiavano la pelle.

    Si fermò, il sudore le colava fino al mento.

   Ma all'improvviso cominciò a scendere e a salire da sola. Avvertì qualcosa proprio sotto i suoi piedi.

    « La zoppa è leggera. »

   Guardò in basso.

   « La zoppa pesa poco. » Il matto si aggrappò alle funi e cominciò a farla volare. L'accompagnò in alto e la riportò a terra, la spinse ancora lassù.

   Din, ripeté subito la campana. Din, prese a cantare, e cantò per dieci volte finché tutti la sentirono. Il matto cinse la zoppa alla vita e la spinse lassù per un'ultima volta, don. E quando le dita della zoppa si staccarono dalle corde, il suono era ancora lì, vibrava nell'aria.

   « Nunù. » Ma il matto fuggì via. « Nunù! » Lei cadde a terra, il viso schiacciato alle pietre si voltò alla camera chiusa. La porta si spalancò mentre quelle piccole gambe scattarono. Il portone cigolò e la luce entrò dalla piazza. « Colette », disse la zoppa a sé e scorse quei capelli lunghi che saltavano sulle spalle e la mantellina slacciata che scivolava da un lato. Vide la bambina uscire dalla torre e si rialzò. Si affannò per raggiungere le scale, ma quando fu al portone si arrestò. Si avvicinò all'uscio scostato, allungò la testa alla piazza: Colette non correva era impietrita davanti alle persone.

   « E lei... E lei! » disse una voce.

   A R. ci fu silenzio per un istante. Un silenzio che non finiva mai.

   « E' la bambina! » disse un rosso.

   « E' lei! E' uscita dalla torre! » dicevano gli ufficiali.

   Colette fece un passo avanti. Poi uno indietro, e di lato. Continuò ad avanzare a zig zag finché si accorse di sua madre. La donna bionda era tra un ufficiale e un rosso, con lo sguardo non cercò la figlia, ma il sindaco che teneva gli occhi al grande orologio.

   Chi dalle case si era avvicinato, adesso si bloccò. Guardò il cielo e si segnò nel nome del Padre.

   « Mamma! » La bambina la raggiunse velocissima e anche sua madre le andò incontro. Colette le si buttò in grembo mentre il viso della donna si alzava verso la torre. E così fecero i gendarmi di R., tutti a scrutare la campana che li aveva traditi. Dalla casa bianca Marie si precipitò dietro il gruppo dei blu: Pierre la vide e si affrettò a raggiungerla. I due corsero verso la torre.

   « Presto! » Gli ufficiali si strinsero attorno alla bambina, lo stesso fecero i rossi. E intanto Colette strofinava il viso contro un fianco di sua madre e l'abbracciava, le si aggrappava addosso.

  La zoppa guardò R. scomparire. Le porte delle case si aprirono e subito si richiusero, le luci si spensero. Le finestre non furono sbarrate e quelle ombre rimasero incollate dietro i vetri. Alcuni restarono, si accalcavano pian piano, le preghiere delle donne erano lamenti tra i denti, nenie sussurrate senza fine. Venivano avanti, strette le une alle altre, e il loro vocio era un unico canto languido, un tappeto che ricopriva la piazza.

   « Sono stati loro! » Il sindaco alzò il braccio alzato e un dito indicava il portone della torre. L'ometto strattonò la giacca del capo dei gendarmi e lo fece chinare, gli sussurrò qualcosa mentre si passava le mani sulla fronte lucida. Il sindaco sollevò la lampada per farsi largo tra la folla, poi si buttò sulla figlia e la strinse. La sollevò, fece qualche passo allontanandosi. Colette si strofinava gli occhi, annuiva, poi fu lasciata a terra.

   « L'hanno presa loro!» La voce del sindaco coprì tutte le altre. « Sono stati loro! » E il bastone puntava dritto alla torre. Gli uomini della città fissarono il portone, la zoppa tolse la testa di colpo. « Loro! »

 

 Il matto si mise a urlare dalla stanza delle leve. « Aiuto! »

  Poline restò con il portone socchiuso davanti. Sentì quei passi tra il gracchiare degli uccelli. Sentì il pianto di Colette, ora.

   « Andiamo noi! » ordinò un rosso.

   « Noi! » rispose secco il capo dei gendarmi.

   La zoppa fece un passo indietro.

   Un colpo e il portone si spalancò. Le divise blu la videro subito. Entrarono e si fermarono davanti a lei.

   La gamba debole rimase bassa. Poline teneva le mani una nell'altra, premute tra i seni. Lo sguardo chino si alzò lentamente. Il primo era il capo dei gendarmi.

   « Eccola » mormorò.

   La zoppa sollevò gli occhi del tutto e distinse il sindaco e l'ometto, i blu mischiati ai rossi. I lumi pendevano dalle loro braccia e illuminavano la torre come di giorno. « Vieni avanti, vieni fuori » disse il capo dei gendarmi.

   Poline ubbidì. Avanzò mentre loro indietreggiavano. Uscì dalla torre, appoggiò la schiena contro le pietre. Loro si disposero in semicerchio e la fissavano.

   Marie si fece largo, provò a raggiungerla ma i blu la fermarono.

  « Fate spazio. » Una voce parlò da dietro. Il gruppo si aprì e un ufficiale venne avanti. Si tolse il cappello, aveva i capelli bianchi e la barba fitta sul mento. Afferrò la lampada che dondolava dalla manica della giacca nera. Avvicinò la luce alla zoppa.

   « L'hanno presa lei e il matto. » Il sindaco si precipitò verso di loro ma l'ufficiale gli fece segno di starsene da parte.

   « La conoscete? » domandò l'ufficiale.

   « E' una zoppa » disse l'ometto.

   Marie era riuscita a portarsi accanto a Pierre. Si strinse al marito.

   L'ufficiale guardò la bottegaia nell'angolo, se ne stava con un fazzoletto alla bocca e i suoi occhi lucidi cercavano la zoppa.

   « Vive nella torre, è selvaggia... non vi avvicinate troppo » continuò l'ometto.

   L'ufficiale non lo ascoltò. Andò da Poline che tremava e teneva il viso a terra. La scrutò per bene, si accorse della gamba. « Conoscete quella bambina? » le chiese.

La zoppa annuì, poi lo guardò. Aveva le sopracciglia folte e d'argento, degli occhi piccoli piccoli che sorridevano.

   « Fate venire la bambina, fatela venire qua» disse l'ufficiale e si voltò verso Marie che piangeva e si tormentava un lembo della gonna senza smettere di fissare Poline.

   « Il matto, andatelo a prendere! » sbraitò il sindaco e subito tre, quattro gendarmi blu si infilarono dentro la torre. Si sentì l'urlo di Nunù. Poi dei colpi, altre grida che provenivano dal tetto. « Aiuto! I gendarmi catturano Nunù, portano via Nunù! »

   Poline si voltò, fece per tornare dentro ma l'ufficiale le afferrò un braccio. «No... » le disse mentre la teneva in equilibrio.

  Chi era rientrato nelle case tornò fuori poco alla volta, si accalcò intorno alla torre, si unì alla preghiera della piazza che sibilava senza fine.

   « Noooo! » La voce del matto diventò vicina. Lo portarono fuori tenendolo fermo, un rosso gli bloccava le gambe impazzite. Lo trascinarono accanto a lei.

   « Me l'hanno portata via loro! » disse il sindaco.

  Altri due ufficiali si fecero largo mentre la zoppa cercava la mano di Nunù. La prese e il matto cominciò a cantare e a piangere. Se ne stava rannicchiato, le braccia sulla testa a proteggersi.

   « La bambina, fatela venire » disse ancora l'ufficiale e vide la bottegaia abbracciare Pierre.

   La donna bionda li raggiunse, la testa di Colette poggiava sulla spalla di sua madre.

   L'ufficiale fece cenno di farla scendere e si chinò su di lei. « Non avere paura Colette. La conosci? » le domandò indicando Poline.

   Lei non rispose, aveva il naso bagnato che le colava sulla bocca. Gli occhi erano rossi e umidi, un dito tra le labbra screpolate. Si voltò verso sua madre, poi ancora verso Poline.

   « Maledetti! Cosa le avete fatto?» gridò l'ometto.

   Lo sguardo del sindaco andò alla figlia, infine al capo dei gendarmi.

   « La conosci? » ripeté l'ufficiale.

  La zoppa e Colette si fissarono. Poline inclinò la testa. La bambina abbassò gli occhi, li rialzò subito e fece un passo verso di lei, poi un sorriso leggero le attraversò il viso. Le prese la mano, un dito, lo lasciò.

   « Basta per favore, basta! Loro non... » La bottegaia si gettò al collo di Poline e abbracciò la bambina.

   « Cosa...» L'ufficiale si chinò sulla donna.

   « Non abbiamo più niente, niente. » La voce di Marie era ferma. « Cosa potevamo fare? Quando la nostra lana era pura venivano da ogni parte... E guardateci ora, le nostre pance sono vuote, vuote per la miseria... E gli occhi... i nostri occhi non hanno più lacrime. Ma non ci vedete? Guardateci! » Si girò verso l'ufficiale. « Guardateci. Che altro potevamo fare? »

   E subito lo sguardo dell'ufficiale cercò il sindaco.

  « Cosa vai dicendo! » urlò il maiale agitandosi. Intanto i rossi gli si strinsero intorno, lo tennero fermo.

  « Ci siamo consumati nelle preghiere, ma non cambiava niente. Dio ci ha tolto la sua luce. E chi ha brillato non accetta di vedersi spento. » Marie prese la mano della zoppa e se la portò alle labbra.

    La piazza tacque.

   La donna bionda si piegò e abbracciò la sua bambina. Fece per portarla via ma l'ufficiale si inginocchiò davanti alla piccola.

   Colette si raddrizzò la mantellina. «La regola... La prima regola di papà... » singhiozzò lei. « Non dire niente a nessuno. » Fece il segno del silenzio. « Niente della torre a nessuno, dice la prima regola di papà. »

   La zoppa si toccò il ciondolo al collo, schiacciò tra le dita i petali consumati della rosa.

   « La regola di papà » ripeté l'ufficiale e la baciò sulla testa. Poi fece un cenno a un rosso ed ecco che tutti i rossi circondarono il sindaco.

   « Addio... Addio Colette.» Quello della zoppa fu un sussurro tra le grida.

   E la bambina lo sentì e continuò a sentirlo anche quando sua madre la portò via. Si allontanava e con lo sguardo non l'abbandonava. La schiera dei blu si aprì per farla passare e in quell'istante lei allungò un braccio verso Poline.

   Addio Colette.

 

La zoppa accarezzò il matto sulla fronte, sulle guance, sul petto. «Nunù... » lo chiamò. Ma lui non l'ascoltava più da quando erano tornati nella torre, subito dopo che l'ufficiale li aveva riportati dentro. Da quel momento il matto non aveva mai smesso di cantare e i suoi occhi erano rimasti spalancati al foro, alla piazza affollata di divise rosse e di gente straniera che continuava a venire. Erano tutti accorsi nella notte, dopo che alcuni rossi erano andati nella grande città e li avevano chiamati.

   « Nunù, ora abbiamo tempo » disse la zoppa mentre dal foro guardava il sindaco, l'ometto e il capo dei gendarmi circondati dai gendarmi di Lacroix e da altri sconosciuti.

   Il maiale teneva la testa china e si asciugava la fronte con un fazzoletto. Aveva le maniche della camicia risvoltate fino al gomito, il panciotto slacciato. Parlava con un rosso che continuava a scuotere la testa e gli faceva segno di rimanere da parte e tacere. Tutt'intorno c'erano i blu. Marie e Pierre, il viso di lei rivolto al marito che le prendeva una mano. E poco distanti alcuni uomini che scrivevano su quaderni minuscoli e persone giunte da poco. Gli abitanti non si erano mai affacciati alla piazza, questo era stato l'ordine dell'ufficiale che durante la notte era passato di casa in casa assieme a un gruppo di uomini.

   « Ti prego. » La zoppa guardò la punta del monte che grattava il cielo dov'era più chiaro. Lo pungeva e le stelle non c'erano più, adesso c'era il chiarore della mattina che nasceva timido. Strattonò il matto, lo tirò a sé, gli disse: « Ti prego, ora c'è tutto il resto del tempo ».

   Ma la voce stanca di Nunù cantava e lui si dondolava da un piede all'altro, il viso impietrito e sudato.

   « Nunù. »

  Gli uccelli neri camminavano sui tetti gracchiando versi lunghi e sordi, alcuni volavano sopra R. in cerchi perfetti.

   Lei tirò a sé Nunù. Lo fissò.

  Ora gli occhi del matto erano coperti di lacrime che scivolarono sugli zigomi e la barba le bevve in un istante.

   « Ti prego, vieni. »

  Lo toccò ancora e gli mostrò un pugno stretto. Dentro c'era un foglio di carta stropicciata. La zoppa lo spiegò e glielo fece vedere.

   Nunù lo scrutò. « No! » La spinse via e lei cadde.

   Poline si rialzò, strinse di nuovo il foglietto tra le dita. « Vieni, ti prego. » Sollevò il viso al bagliore che cresceva dentro il foro.

   Ma lui restò zitto. Non la guardò più. Si schiacciò al muro e la sua schiena era scossa dai sussulti.

   « Ti prego... » Fu un lamento lunghissimo quello della zoppa. « Ti prego, Nunù. » Lo sussurrò e pianse con lui.

   « Gli uomini...» E quelle lacrime gocciolavano dal mento fino a terra. « Gli uomini guardano » disse il matto e la spinse di nuovo.

   Mala mano di lei si avvicinò. Lo sfiorò, gli avvolse la spalla e più giù, fino al polso.   Poi si staccò. Andò nella tasca della gonna e di nuovo tornò tra le dita del matto che adesso sentirono l'orologio d'argento.

   Nunù lo tenne stretto e ora cantò piano: « La strada vicina... vicina che mi porta lontana... da te, da loro che non hanno misericordia. Non mi resta... che andare nel buio un saluto l'addio... l'addio che non devi vedere». Gemette e infine disse: « La zoppa ora va via, la zoppa è meglio che va via. Nunù no. Nunù ora suona ».

   « Nunù...»

   « La zoppa ora va via! Va via! » le strillò il matto.

   « Nunù,,, canta per me. Canta la tua canzone. »

   Lei indietreggiò, il foglio stropicciato nel pugno. Afferrò la stampella e spiò ancora una volta il cielo. Era sporco di luce solo in un angolo, un lembo che si faceva ogni attimo più grande. Così prese a cantare assieme a lui e la sua voce si allontanava, si allontanava, mentre quella del matto rimaneva là.

 

  Di luce di giorno

   Di lacrime di notte

   Guardano ma temono

   Ecco perché non vedono

 

E quelle lacrime non le fecero vedere più niente perché ora Nunù era solo un'anima di colore sui suoi occhi, l'ultima tela, che si dipinse del nero della scala di pietra, del blu della camera chiusa. Del chiarore là fuori. Di quegli occhi attenti che la seguirono per i ciottoli bianchi, per la via delle botteghe. Di quei bisbigli sottili, del silenzio che l'accolse all'Arco. Quell'ultima tela, sfumata anche di quelle sagome tutte uguali, piantate su un tappeto d'erba e di rugiada. Erano croci bianche e ordinate, circondate da cespugli di fiori azzurri. Le croci di R., e il legno inciso al centro di ognuna diceva di Bulbon e Padre Carl. Diceva di suo nonno. Del maestro delle campane. Di sua madre e di suo padre, due legni che quasi si toccavano.

   « Papà» sussurrò. Strinse la mano al foglio accartocciato e con l'altra colse un fiore dal gambo lungo. Lo strofinò su « Gustave », lo depose sotto « Jerome, sindaco indimenticato ». E si buttò addosso a quella croce, l'abbracciò. Poi nel rialzarsi le vide, senza fiori, altre croci relegate dove l'erba diventava terra brulla e secca. Allora pensò al figlio dell'orologiaio e alle anime bianche di R. che riposavano in quella terra abbandonata.

   La zoppa guardò la strada che dal monte portava alla grande città. Gli alberi si erano fatti alti e il vento scuoteva le fronde verdi. Aprì il foglio stretto nel pugno. Si asciugò gli occhi e fissò uno a uno quei piccoli disegni, gli animali del bosco che l'avrebbero accompagnata nel viaggio.

  E di scatto si voltò indietro. La campana suonava e i rintocchi di Nunù non finivano mai. Così la scrutò per l'ultima volta, altissima e severa. La torre, sui tetti ocra, bucava di grigio l'alba timida.